“Dio sa come mi sono dato da fare per venirne fuori bene. Non ho pensato no, come del resto mai ho fatto, né alla mia sicurezza né al mio riposo. Il Governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata per questa come per tante altre imprese. Un allontanamento dai familiari senza addio, la fine solitaria, senza la consolazione di una carezza, del prigioniero politico condannato a morte. Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d‘Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese. Pensateci bene cari amici. Siate indipendenti. Non guardate al domani, ma al dopo domani.” Lo scriveva Aldo Moro a Benigno Zaccagnini, segretario della Democrazia Cristiana, il 20 aprile 1978, trentaquattresimo giorno della sua detenzione nella “prigione del popolo” delle Brigate Rosse. (1) Il suo non è uno sfogo di un prigioniero rapito da un’improbabile banda di terroristi invincibili e onnipotenti. La sua è un’analisi politica lucida di cosa gli sta succedendo intorno. Dai documenti dei servizi segreti britannici pubblicati da Repubblica, (2) risulta che gli alleati anglo-americani erano terrorizzati dall’eventualitá che il Partito Comunista Italiano potesse entrare a far parte del Governo. In un rapporto del 23 marzo 1976 si legge che al Dipartimento di Stato Usa sono molto preoccupati: „La situazione italiana va deteriorandosi e non si sa come agire“. Di qui al sospetto che la Dc faccia il doppio gioco il passo è breve: „Piuttosto che perdere il potere, preferirebbe spartirlo con il Pci“. “Al vertice di Puertorico, riservato alle sette potenze più industrializzate del mondo, l‘Italia si presenta senza un governo. Ci sono Moro e Rumor, ma solo per salvare le forme. Gerald Ford, Callaghan, Schmidt e Giscard d‘Estaing si incontrano alle 12,45 di domenica 27 giugno al Dorado Beach Hotel per un pranzo di lavoro e qui si verifica un pietoso incidente. Lo descrive brutalmente Campbell, futuro ambasciatore britannico a Roma: „Quando arrivano per il lunch, ai due sfortunati ministri italiani viene impedito di entrare“. È il massimo dell‘umiliazione. Appena chiuse le porte, si affronta il „problema Italia“. Il verbale di quell‘incontro viene redatto dal funzionario Fergusson. Pur riconoscendo che gli italiani devono decidere da soli, i quattro capi di Stato sono d‘accordo che occorre fare tutto il possibile perché i comunisti restino fuori dal potere. Giscard propone di elaborare, in una prossima riunione da tenersi a Parigi, una bozza di programma di governo che gli italiani dovranno accettare in cambio di un sostanzioso aiuto finanziario.” (3) Moro non ha scampo. A questo punto il suo destino è probabilmente giá segnato. Lui stesso vorrebbe uscire dalla politica una volta concluso il progetto di tutta la sua vita: allargare la base democratica dello stato aprendo la porta del Governo al secondo partito popolare italiano. Ma è Zaccagnini che insiste perché ancora una volta accetti un incarico all’interno del partito e lo guidi in qualitá di presidente. Moro è riluttante, vorrebbe ritirarsi dietro una scrivania anonima e dedicarsi ai suoi studi, ma, uomo di partito, accetta l’ultimo dei suoi incarichi. Si dirá poi che fu rapito proprio in qualitá di presidente della DC. Stando a quanto ha dichiarato successivamente Mario Moretti, per le BR era rilevante che Moro fosse presidente della DC e che fosse da trent‘anni al governo. In realtá la condanna a morte è giá firmata prima del suo rapimento. Da alcuni atti dell’inchiesta risulta che al momento dell’esecuzione, avesse nelle tasche alcuni gettoni telefonici, segno che probabilmente, almeno alcuni dei suoi carcerieri erano convinti di rilasciarlo in libertá e che invece, all’ultimo minuto, nel garage sotterraneo di Via Caetani, Mario Moretti sparó gli otto colpi dalla sua mitraglietta che lo uccisero. L’atto di un agente che ubbidiva ad ordini estranei alle BR? Probabile. Tanto che la brigatista Adriana Faranda citò una riunione notturna tenutasi a Milano e di poco precedente l‘uccisione di Moro, ove ella ed altri terroristi (Prospero Gallinari e – forse – Franco Bonisoli) dissentirono, tanto che la decisione finale sarebbe stata messa ai voti. Della mano comandata da lontano è convinto anche Corrado Guerzoni, allora segretario personale di Aldo Moro e che da anni si batte perché si giunga alla parola fine del caso, nel quale, egli sostiene, sono coinvolti una grossa fetta della Democrazia Cristiana, il Vaticano e la lunga mano dei servizi segreti americani. (4) Il dito è puntato in particolare sulla struttura stessa dello Stato, cioè a quella trama fatta di burocrati di alto livello che, indipendentemente dai Governi e dai Partiti, tengono ben salde le redini del Paese. Moro aveva profetitazzato che il suo sangue sarebbe ricaduto sulla DC e sui suoi principali attori. Zaccagnini si ritiró da ogni incarico istituzionale e dalla scena politica nazionale, distrutto dal peso della vicenda. Cossiga è ormai condannato alla demenza e Andreotti vaga da un processo penale all’altro, accusato di ogni nefandezza, dall’associazione mafiosa all’omicidio su commissione. La DC non esiste piú e tutto il sistema che allora reggeva la cosiddetta prima Repubblica si è disciolto al sole. Solo i mandanti della strage di Via Fani restano in libertá, in Italia e all’estero, anche se i loro nomi sono ormai noti a tutti.
(1) http://www.macchianera.net/2005/09/16/lettere_di_aldo_moro_dalla_pri_5.html
(2) http://www.repubblica.it/2008/01/sezioni/politica/documenti-foreign-office-1/documenti-foreign-office-1/documenti-foreign-office-1.html
(3) http://www.repubblica.it/2008/01/sezioni/politica/documenti-foreign-office-1/documenti-foreign-office-3/documenti-foreign-office-3.html
(4) http://www.rai.tv/mpplaymedia/0,,RaiTre-In1-2h%5E17%5E57517,00.html